Il carcere è una dimensione complessa, nella quale spazio e tempo assumono forme diverse da quelle che hanno per chi è libero. In carcere lo spazio è pieno e il tempo è vuoto. Come ha detto la giornalista Daniela de Robert in apertura della nostra Plenaria dell’Intergruppo sui Diritti Fondamentali della Persona dedicata proprio alle misure alternative al carcere.
I numeri emersi nella discussione sul sovraffollamento delle prigioni italiane sono spaventosi, così come sono indice di fallimento quelli di chi dopo il carcere torna a delinquere: 115 delle 140 persone che ogni giorno escono di prigione ci rientreranno nel giro di pochi mesi. Questo perché il nostro sistema carceri è quasi esclusivamente punitivo e non rieducativo.
Il carcere è anche il luogo più disumano che possa esistere. Dove la persona perde la sua identità e la sua dignità di essere umano, tanto che nel solo 2024 sono già 74 i detenuti che si sono tolti la vita.
Un grande Paese come il nostro ha il dovere di sperimentare forme alternative di detenzione per tutte quelle persone che hanno commesso reati minori e per i tanti giovani che affollano le nostre carceri. All’Intergruppo il Dr Giorgio Pieri ci ha spiegato cosa sono le comunità educanti carcerarie, e abbiamo ascoltato i racconti di educatori, sacerdoti ed ex detenuti che hanno condiviso con noi storie straordinarie di caduta, di disperazione e poi di rinascita all’interno di comunità che hanno permesso loro di costruire un’alternativa concreta al tipo di vita che fino ad allora avevano conosciuto.
Grazie a tutti i presenti e a alla nostra Vicepresidente Flavia Carlini per aver moderato l’incontro.
Grazie al sottogruppo che all’interno del nostro Intergruppo si occupa di carceri e in particolare al Dr Giorgio Pieri della Comunità “Papa Giovanni XXIII”, che con pazienza e amore ha curato la preparazione dei lavori. Grazie ai sacerdoti presenti che operano nelle carceri italiane e con generosità fanno ciò che lo Stato dovrebbe fare per la rieducazione dei detenuti. Grazie agli ex detenuti per il coraggio di parlare a nome di tutti gli altri.
Grazie a don Riccardo Agresti, che ci ha fatto assaggiare dei taralli pugliesi prodotti dai detenuti del carcere in cui opera. Quelle piccole ciambelle avevano un sapore squisito, merito dell’ingrediente segreto con il quale erano state confezionate: la voglia di riscatto e la domanda di poter avere dignità, rispetto e strumenti per costruire un futuro diverso.